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L’abbraccio – 2.

13 marzo 2020

civetta

Il silenzio ci inquieta soltanto quando non si accorda con il nostro senso interno, cioè quando trova dentro di noi uno spazio in cui amplificarsi.  Quello spazio di amplificazione può essere generato da ciò che siamo abituati a sentire. Gli aerei, per esempio, se si vive non lontano da qualche rotta di atterraggio. Oppure certe strade a grande percorrenza, che di solito si avvertono anche di notte, come un lontano ronzio. E poi le voci dei vicini di casa, le televisioni accese, lo sbattere delle porte e dei cancelletti, le auto che parcheggiano vicino. E il parlarsi da un giardino all’altro, un richiamo dalla finestra del primo piano, l’abbaiare di un cane. Già prima dell’inizio della primavera (quando le finestre iniziano ad aprirsi, un po’ come i fiori), tutti questi suoni cullano la nostra abitudine e il nostro senso dell’udito li riconosce come rassicuranti, anche nella loro banalità (o proprio per la loro banalità).

Poco fa, nella notte, ho udito il richiamo di una civetta (le adoro, ma sfuggono sempre allo sguardo anche se volano vicino). In questo immane silenzio, è stato come un abbraccio consolatorio, un sorso d’acqua preziosa; niente di metafisico, ma come se  quella civetta volesse riportarmi alla maggior consolazione, ovvero riconoscere che la realtà dell’esistenza (lo scorrere del tempo, delle stagioni)  non corrisponde, non è quella che percepiscono i miei sensi stanchi, la realtà fluisce indipendentemente dal mio sentire. La civetta vola, plana, si rifugia sul suo ramo, è indifferente al silenzio, ignara, al di sopra delle umane cose; vive, cerca le sue prede, fa il suo richiamo, aspetta la primavera, fa il suo nido, canta. Non posso imitarla, posso ascoltarla, ricordarmi che c’è e sperare che torni a planare qui vicino.

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