La terra
Al principio la terra era uniforme, costituita da strati di sabbie e pietre, ondulati e sovrapposti, di tutte le sfumature di giallo, beige, ocra e rosso. Sempre in movimento erano i granelli, piccoli continui rotolii e risalite e scambi di posto, ma sempre l’aria minima tra l’uno e l’altro, sempre tutti vicini e scorrevoli. Talvolta penetrati dall’acqua, tendevano ad appiccicarsi l’uno con l’altro, per poi separarsi di nuovo quando l’acqua evaporava o scendeva in profondità. Sopra, i tramonti e le albe, le tramontane e la calura, il suono del movimento che corre nell’aria. Sopra e sotto terra, l’odore di ogni materia, di ogni granello, profumo tenue, ma definito.
Dovrei definire involucro una forma che è in grado di contenere un’altra forma, avvolgendola; in questa accezione, tutta la terra è un involucro. Invece preferisco definire involucro lo spazio dell’esistente occupato da un essere vivente. Non so perchè senta mia questa definizione: forse perchè ogni essere vivente sa contenere altro in una misura che potebbe dirsi infinita – se non fosse che ogni essere vivente ha un tempo definito in cui esprimersi.
Nella terra di Pompei, gli involucri sono, per loro disgrazia e nostra informazione, rimasti disegnati anche oltre quel tempo definito. I contorni tridimensionali dei corpi si sono conservati nelle loro dimensioni originali, e descrivono fedelmente gli esseri viventi che si sono trovati, alla fine, parte integrante di quella terra.
La scomparsa di un essere vivente che è caro al mio cuore si può perfettamente rappresentare così, come un involucro vuoto nella terra. Dove la terra è l’esistenza, l’involucro era quell’essere vivente e il vuoto è la realtà presente. Un vuoto “incolmabile”. Impossibile, infatti, riempire l’involucro vuoto di una vittima di Pompei con il corpo di un altro. L’involucro vuoto è unico, come l’essere vivente che lo ha definito con i propri contorni.
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La Terra, senza Eftimios è leggermente vuota. Cerco disperatamente di colmare.