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Acque pericolose

17 gennaio 2010

(…) Chïunque i lidi incautamente afferra
Delle Sirene, e n’ode il canto, a lui
Né la sposa fedel, né i cari figli
Verranno incontro su le soglie in festa.
Le Sirene sedendo in un bel prato,
Mandano un canto dalle argute labbra,
Che alletta il passeggier: ma non lontano
D’ossa d’umani putrefatti corpi
E di pelli marcite, un monte s’alza.
Tu veloce oltrepassa, e con mollita
Cera de’ tuoi così l’orecchio tura,
Che non vi possa penetrar la voce.
Odila tu, se vuoi; sol che diritto
Te della nave all’albero i compagni
Leghino, e i piedi stringanti, e le mani;
Perché il diletto di sentir la voce
Delle Sirene tu non perda. E dove
Pregassi o comandassi a’ tuoi di sciorti,
Le ritorte raddoppino ed i lacci.
Poiché trascorso tu sarai, due vie
Ti s’apriranno innanzi; ed io non dico,
Qual più giovi pigliar, ma, come d’ambo
Ragionato t’avrò, tu stesso il pensa.

(Omero: Odissea, Canto XII. Traduzione di I. Pindemonte)

Mi ha sempre affascinato l’episodio del canto delle sirene, fin da quando la mia coltissima nonna mi raccontava le storie dell’Iliade e dell’Odissea…

(…Ma l’astuto escamotage consente davvero di assaporare l’ineffabile sapore di un desiderio impossibile senza infrangere irreparabilmente le regole?

…Le volte in cui l’ho sperimentato ho toccato con mano abissi di sofferenza e rimpianto, e mai assaporato un bel niente).

Vi ricordate? Lo raccontò con asciutta espressività ed efficace senso del dramma l’indimenticabile sceneggiato (e poi film) di Franco Rossi, Le avventure di Ulisse (1969), con Irene Papas e Bekim Fehmiu.

 

5 commenti leave one →
  1. arte64 permalink
    18 gennaio 2010 21:36

    Nei miei momenti peggiori sono stata accusata di comportarmi da sirena, e sicuramente era vero. Le sirene non sono un briciolo più felici dei marinai legati all’albero maestro. Perchè, se anche il concupito si butta, poi arrancherà faticosamente per riguadagnare la nave.

    A parte le autoreferenzialità, peraltro piuttosto noiose, la figura della sirena è sicuramente piena di fascino, e nel mondo musicale e poetico ne esistono esempi in molte forme: l’Ondina/Undine, la Lorelei, le ninfe acquatiche, da quelle mortali a quelle piene di abnegazione come la sirenetta di Andersen che tanto mi ha fatto piangere. Forse uno specchio della natura femminile, variegata e certo difficile da capire per gli uomini.

    Ricordo benissimo lo sceneggiato visto da bambina. Mi fece un’impressione profonda. La traduzione del Pindemonte poi, non la leggevo da oltre trent’anni, l’epoca delle medie. Ma ricordo di aver tradotto dal greco il canto delle sirene godendone la bellezza.

    • taniapallabazzer permalink*
      18 gennaio 2010 23:42

      Sai, il tuo rievocare i luoghi letterari delle sirene mi ha fatto venire in mente un racconto di Tomasi di Lampedusa, dedicato alla sirena Lighea, che mi emozionò e angosciò moltissimo (devo ritrovarlo assolutamente); e anche una Ondine molto amata, quella del Gaspard de la nuit di Ravel. Andersen…molti dei suoi racconti, pur riletti in età matura, mi hanno impressionato, lasciandomi una sensazione di baratro, di nonsenso da vertigine…non li leggerò di certo ai miei figli…

      A pensarci bene anch’io mi sono trovata talvolta a far la parte della sirena, senza naturalmente trarre alcun giovamento dal ricoprire questo ruolo, anzi. Il racconto di Omero però mi ha sempre indotto a cercare un’identificazione con Ulisse come l’uomo che, pur attraverso una scelta di razionale autodifesa, riesce tutto sommato ad affacciarsi sull’abisso di un desiderio, quasi sfiorandolo, sicuro però di non cadere. Avrebbe potuto tapparsi le orecchie pure lui, e non sapere nemmeno quello che si stava perdendo; così, invece, superato il pericolo, si sente forte e astuto. Però, che sofferenza! Sapere quello che si perde è meglio? E’ così coraggioso? O è ancora più coraggioso mollare tutto e tuffarsi?

      • arte64 permalink
        19 gennaio 2010 10:58

        Mi piacerebbe molto leggere quel racconto di Tomasi di Lampedusa, grandissimo scrittore.
        Andersen era un sadico, punto e basta. “La piccola fiammiferaia” è perverso nel suo sadismo, mi ha fatta piangere litri di lacrime da bambina e tuttora (riflesso condizionato) non riesco a leggerlo a mia figlia senza piangere, quindi ho smesso. Però Andersen continua ad affascinarmi, probabilmente per una sorta di masochismo inconscio, e ad esempio “La pastorella e lo spazzacamino” mi piace moltissimo. Come un’idiota, sono andata sulle sue tracce a Copenaghen. Forse avrà una funzione catartica, probabile.
        Quello che dicidi Ulisse è motlo interessante: il fascino dell’abisso. Molti non hanno il coraggio di avventurarvisi, ma ancora di più non hanno l’intelligenza di lasciarsi legare, si buttano, ma poi si pentono.
        Non so cosa sia meglio, sapere o non sapere. Penso sapere. Penso che ci siano storie che vadano vissute comunque, mentre altre dovrebbero restare sogni. È quel discrimine che è così sottile che è difficile individuarlo.

      • taniapallabazzer permalink*
        19 gennaio 2010 23:25

        A proposito di Andersen…e “le scarpette rosse”? non è terrificante? …Hai ragione, era un sadico, e aggiungo, travestito da pedagogo.
        A proposito invece di Ulisse, fai bene a ricordarmi che farsi legare è comunque una forma d’intelligenza. E sono d’accordo con te anche nel dire che alla fine sia meglio sapere – anche se è un modo per assicurarsi una probabile dose di rimpianto… Riguardo a quel discrimine…non penso che sia sempre così sottile: quando ci si pongono quesiti tormentosi di solito sono in gioco grandi cose, grandi affetti; in fondo al proprio cuore spesso giace la risposta, ed è proprio lì che è difficile andare, mi sa.

  2. arte64 permalink
    20 gennaio 2010 09:18

    Esatto. Sta tutto lì, in quel profondo, ma è la via che è difficile.

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