Ali
Un giorno di tanti anni fa pagaiavo nello specchio di lago davanti alla scaletta, e tra le onde provocate dalla Breva pomeridiana scorsi un piccolo anatrino, ancora batuffolo implume, che doveva essersi separato dalla madre e nuotava disorientato costeggiando la riva. Un momento dopo con la coda dell’occhio vidi due ampie ali scure abbassarsi decise sul pelo dell’acqua, così per istinto agitai la pagaia e il grosso volatile rinunciò alla preda, risalendo da dov’era la parabola nell’aria. Subito dopo realizzai che avevo salvato – temporaneamente – la vita al batuffolo, ma riflettendo compresi che la maestosa poiana aveva forse anche lei uno o più batuffoli nel suo nido. Inoltre, mentre la specie delle anatre allora come oggi prosperava intorno alle rive del lago, le poiane erano considerate già a quel tempo specie protetta, soffrendo i cambiamenti climatici e la concorrenza dei gabbiani, uccelli non autoctoni ma aggressivi e resistenti.
Tanto aggressivi che proprio oggi uno di essi scendeva con parabole spericolate (non ampie e lente come quelle delle poiane) ad afferrare al volo i pezzi di pane che lanciavo generosamente – di nuovo – alle anatre ed ai loro batuffoli.
Ma anche le poiane ci sono ancora. Resistono anche loro, le riconosco per l’apertura alare, il colore scuro delle piume e lo stile profondamente nobile ed antico della planata; distinguo in un attimo quella forma alata che planando con la sua aura forse leggermente inquietante racconta del suo nido posto in alto tra rocce inaccessibili.
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Sì, Tania. Ecco il dilemma. Salvare la vittima o salvare il carnefice? Vedo che tu tendi a salvare la vittima. Nietzsche preferiva il carnefice.
L’altro ieri mi trovavo a Polizzi Generosa, sulle Madonie. Insieme a Vincenzo D’Angelo, un ragazzino di otto anni, abbiamo catturato nel centro del centro del paese un piccolo merlo, caduto o volato troppo presto dal nido, e quindi incapace di volare, di bastare a se stesso. Per salvarlo dai gatti, dai cani, dalle automobili, dai bambini cattivi. Lo abbiamo cibato catturando e dandogli in pasto insetti vari. Anche in questo caso Vincenzo ed io abbiamo salvato la vittima, trasformando in vittime altri carnefici.
Io per me non mi diverto né ad essere vittima né ad essere carnefice. Ma la natura la pensa diversamente. Anche per questo cerco di essere, di diventare, un essere innaturale.
Pasquale Misuraca
Caro pasquale, forse dovremmo sforzarci di non pensare in termini di vittime e carnefici quando abbiamo a che fare con manifestazioni spontanee della natura…ma tutti noi, penso, saremo sempre portati a compatire quelle che al momento ci paiono le vittime più deboli, più scontate.
Quanto a me, anch’io cerco da sempre di neutralizzare l’inesorabile istinto di sopravvivenza che ci vorrebbe sempre un po’ carnefici, ed allo stesso tempo cerco di non restare vittima di questa scelta. Ma è un lavoro di raffinato ed estenuante equilibrismo…..
Il dilemma deriva secondo me dal nostro non essere esseri naturali, nel bene e nel male. La natura non opera in termini di bene e male. Siamo noi a pensare in questi termini, ad applicare nozioni etiche dove non esistono. Siamo così perchè siamo esseri umani, liberi, e quindi in grado di percepire e operare il bene e il male. È la nostra forza e la nostra debolezza. E nei nostri “giudizi” spesso sbagliamo, come quando io ho “salvato” un piccolo gabbiano che la madre aveva abbandonato. Gli ho dato da mangiare e ho così rallentato la sua morte, che era decisa e inevitabile. Eppure la pietà che noi proviamo non è solo un errore. È proprio il nostro essere innaturali che ci rende qualitativamente diversi dagli animali: capaci di crudeltà ma anche di amore.
Sono d’accordo con te. Certamente quella pietà non è solo un errore – altrimenti saremmo noi, l’errore.